Tradurre le ricette di Ilaria Dal Brun

Tradurre un testo di alimentazione e salute (con ricette incluse) scritto da un autore francese spesso significa trovarsi a giocare con l’onnipresente crème fraîche. La crème fraîche è una crema di latte densa e dal sapore leggermente acidulo, per l’appunto acidificata tramite colture di lattobacilli . Il tenore di grassi arriva al 33%, a meno che non si parli di crème fraîche allégée,* al 15% (M. Apfelbaum et al., Diététique et Nutrition, Masson, 2004, pp.330-331).

Sebbene ci assomigli, la crème fraîche non è, come capita di leggere, panna acida, per la quale il francese dispone di un’espressione alla bisogna (crème aigre, e a volte i due tipi coabitano allegramente nello stesso testo).
Diffusa nei paesi nordeuropei (in Gran Bretagna e Scandinavia, per lo meno, dove viene venduta con il suo nome francese di crème fraîche), è con gran sollievo del traduttore reperibile anche in Italia, pur se non con la stessa diffusione.

Per quanto riguarda la traduzione, finora mi sono imbattuta in due situazioni:
  1. La crème fraîche compare nelle ricette. Si tratta di ricette francesi e dunque questo ingrediente abbonda. La soluzione adottata è stata quella di mantenere l’espressione “crème fraîche” e di inserire una nota esplicativa la prima volta che compariva il termine (con qualche indicazione di reperibilità). Volendo, la si potrebbe anche localizzare (per la localizzazione, v. punto 2), ma l’operazione in questo caso comporterebbe un’assunzione di responsabilità (la ricetta risulterà proprio la stessa? Il sapore sarà quello voluto nell’originale?) che a mio parere va oltre le mansioni del traduttore (così come non è ipotizzabile che il traduttore si metta a sperimentare tutte le ricette tradotte per scoprire se è possibile sostituire la crème fraîche con qualche surrogato).
  2. La crème fraîche compare in un elenco di altri alimenti da evitare (regime a ridotto contenuto calorico o semplici raccomandazioni per limitare l’apporto di grassi animali). In questo caso, come ha fatto notare Mara, la localizzazione, la sostituzione di un prodotto poco usato nella cucina italiana con uno simile maggiormente diffuso (ad esempio la panna), si rivela una buona soluzione. Perché localizzare? Perché in un elenco di alimenti che si raccomanda di evitare il messaggio principale da far arrivare al lettore è il seguente: “Questi alimenti sono troppo grassi e tu li usi pressoché quotidianamente; la tua salute è a rischio, evitali”. Utilizzando l’espressione “crème fraîche” io sto certamente facendo sapere al mio lettore che si tratta di un alimento ricco di grassi animali, ma il lettore farà un’alzatina di spalle, “perché comunque lui usa di rado quell’ingrediente – se mai lo usa – e dunque ecco uno in meno di cui preoccuparsi per la salute” (e magari a pranzo si mangia spesso e volentieri un bel piatto di tortellini panna e prosciutto).

Chiaramente sono due soluzioni che mi sono tornate utili nel loro contesto e non di chiavi per tradurre crème fraîche in ogni frangente. Va detto che un elemento tipico della cultura d’origine non è necessariamente intraducibile (sfatiamo un po’ il mito dell’intraducibilità?). Lo diventa quando si tenta di dare soluzioni di equivalenza decontestualizzate, magari andando alla ricerca di quel rispetto per l’autore (“ha scritto proprio crème fraîche, se localizzo lo tradisco”) che non è cosa buona e giusta in tutti i testi (nel tipo di testi che traduco io, la priorità va al lettore, perché il libro deve essere prima di tutto fruibile da questi).

Una cosa però la posso generalizzare: non tradurre letteralmente “crème fraîche” con “panna fresca”. Si rischia di incorrere nell’errore fromage blanc = “formaggio bianco”. Un doppio errore, a guardar bene, primo perché il fromage blanc è un tipo specifico di latticino (così come lo è la crème fraîche) e secondo perché dicendo “formaggio bianco” io non ho detto nulla (la maggior parte dei formaggi è bianca o comunque con varie sfumature di bianco) e non ho reso alcun servizio al lettore, che si gratterà la testa perplesso chiedendosi cosa mai sarà questo “formaggio bianco” (me lo vedo, prepararsi la crema Budwig con la mozzarella...).

E qui mi fermo, perché se ci mettiamo a parlare anche di crème épaisse o crème fleurette, ci mettiamo tutti a dieta.


* Sarebbe anche da discutere la traduzione del termine allégé (“alleggerito”). La legge francese permette di applicare la dicitura allegé solo a prodotti rispondenti a determinati requisiti che – ahimé – ora non ricordo (vado a memoria); se un prodotto non risponde a questi requisiti e gli si vuole ugualmente dare un’aura di salute, lo si definisce “light”. Non conosco la legislazione italiana in materia, ma il termine “alleggerito” è poco diffuso (uno o due prodotti, mi pare: burro e margarina).

Commenti

Anonimo ha detto…
Molto interessanti questi post su cream e crème, un vero piacere leggerli.

La settimana scorsa ero in un famoso negozio enogastronomico di Milano dove, a volte, si ha a che fare con atteggiamenti un po' altezzosi. Al banco dei latticini una persona ha chiesto della panna acida e l'addetto, nascondendo a malapena un certo disgusto (o perlomeno così mi è sembrato), ha spiegato che non ce l'avevano ma comunque bastava aggiungere qualche goccia di limone alla panna italiana e sarebbe stata esattamente la stessa cosa. Io avrei avuto qualche dubbio... ;-)
Luigi Muzii ha detto…
Domanda: perché dovrei localizzare una ricetta di cucina? Se acquisto un libro di ricette di cucina francese, per esempio, immagino preveda di preparare esattamente un piatto francese. Il curatore, allora, dovrebbe semmai mettermi a parte del fatto che potrebbe essere difficile reperire alcuni ingredienti estranei alla nostra cultura alimentare.
Chiunque, per esempio, abbia assaggiato la pizza fuori dai confini nazionali sa che è cosa molto diversa da quella cui siamo abituati. La sua preparazione, del resto, è diversa anche a livello regionale italiano...
Lo stesso dicasi per alcuni prodotti della nostra tradizione: il parmesan non ha proprio niente a che fare con il nostro parmigiano, i vini australiani (peraltro eccellenti) presentano caratteristiche diverse dai nostri, la mozzarella sudafricana (per non parlare di quella americana) potrebbe risultare addirittura disgustosa.
La sciura della panna acida probabilmente aveva in programma di preparare una pietanza della tradizione culinaria stranier:
anche se non sono proprio un gourmet, infatti, malgrado il mio aspetto tradisca una certa indulgenza per la buona tavola, non mi pare che nella cucina tradizionale italiana se ne faccia uso.
Anonimo ha detto…
Ciao Luigi, oggi per una volta ci scambiamo i ruoli, tu il teorico, io la pratica.
I libri di cucina internazionali non li adatterai mai (anche se non avrebbe senso non dare la possibilità, avendola, di usare un ingrediente nostrano al posto di uno introvabile :-). Banalizzando, oggi parli di philadelphia e non di cream cheese...
Nel mio caso, tuttavia, si tratta di opera mista cucina e salute e - come dice anche Ilaria - adatti le ricette al destinatario o al messaggio che vuoi inviare.

Senza considerare i casi di assoluta inesistenza, per esempio, il canola oil. Vallo a dire agli italiani di usare il deprecatissimo olio di colza! (In realtà il canola oil è un olio di colza modificato per ottenere un olio sano, privo degli elementi "tossici" dell'originale.)
Io non lo userei neanche morta, grazie :D

Un saluto a tutti e buon anno
ilaria ha detto…
@Licia: Anch'io penso che aggiungere succo di limone non dia lo stesso risultato. Poi dipende dalla ricetta e dalla versatilità in cucina. Volendo, di sostituti ce ne sono: yogurt, yogurt sgocciolato, yogurt greco, miscela di panna e yogurt... Però però: la panna acida non dovrebbe dare problemi di reperibilità. Magari quel negozio è più attrezzato a fornire atteggiamenti snob che ingredienti! :-D

@Luigi: rubo un attimo la palla a Mara, che saprà darti una risposta più esauriente. Un caso in cui si localizzano ricette è... quando te lo chiede il committente! ;-)))
ilaria ha detto…
Ecco, arrivo sempre tardi! :-( Mara, il famigerato canola, aaargh! Il colza me lo sono trovato tra i piedi, però l'ho lasciato (con nota all'editore). Per qualche oscuro motivo, i nordici lo reputano sano... :-6
Anonimo ha detto…
Si effettivamente è come dice Ilaria (e come dicevo anche io nel post precedente), in genere in editoria gastronomica si usa molto localizzare le ricette di libri acquistati all'estero, è pratica piuttosto comune, anche perché altrimenti alcune ricette risulterebbero irreplicabili. Se fate caso, molti testi sono acquistati all'estero, ma la cucina proposta non viene venduta come "inglese", "francese" etc. (es. un libro sulle torte al cioccolato acquistato da un editore francese), quindi è necessario che il traduttore (o il redattore dopo di lui) localizzi determinati ingredienti (o che comunque specifichi in nota le proprietà dell'ingrediente straniero e suggerisca un'alternativa nostrana). Chiaro poi, sempre come già detto da Ilaria, che la decisione in merito si prende internamente alla casa editrice e al traduttore non resta che adattarsi...

Marina
Mara ha detto…
Ciao Marina,
grazie per il commento. Non posso che confermare le tue parole. Ci sono libri di cucina "internazionale" che vengono tradotti e libri di cucina (per es. tematici, pane, dolci ecc) che vengono "localizzati".
Anonimo ha detto…
Prego figurati! anzi, complimenti per il blog! :-)

ciao

Marina